Corongiu versus Magris e Corriere della Sera
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“L’Europa deve copiare dall’Italia”. La discutibile ricetta neonazionalista di Claudio Magris e del Corriere della Sera contro la crisi e contro gli indipendentismi"
di Giuseppe Corongiu
(IlMinuto) - Cagliari, 29 ottobre - Gli intellettuali italiani quando si occupano di identità e autonomie (per non parlare di nazionalità interne) danno il peggio di loro stessi. Il milieu intellettuale della Repubblica Italiana, negli ultimi decenni, è diventato talmente neonazionalista e centralista da assimilare il suo modello antidemocratico e autoritario fino a ricomprendere grottescamente, in questo modello interpretativo, l’Europa e il mondo intero. Ci sono cantori di questa way of life italiana che hanno sempre a disposizione le prime pagine dei giornali più importanti. L’incompetenza e il fanatismo statalista la fanno da padroni. In fondo anche il leghismo è stato, nei fatti, una declinazione strabica di questo pensiero. Gli occhiali monoculari con i quali si analizza la realtà provinciale vengono impiegati anche per interpretare dimensioni etnolinguistiche e nazionalitarie polimorfiche, rifiutate in Italia, che sfuggono quindi al loro visus. Spesso questi corifei dell’Italia non capiscono il mondo che descrivono, non riescono proprio a “comprenderlo” in senso figurato, a circoscriverlo dentro uno schema conoscitivo. E dunque le loro proposte politiche, per quanto confezionate con mestiere, sono al limite del delirio. Il recinto ideologico che hanno costruito per reggere la baracca neoitalica li limita. Per molti maître à penser è infatti impossibile commentare ciò che capita in Europa e nel Mondo senza proiettare ubbie, limiti e fantasmi di un’Italia chiusa alle specialità etnolinguistiche e asfittica per la mancata tutela dei diritti civili. Il virus sembra contagiare anche intellettuali di rango, non del tutto estranei alla conoscenza della cultura europea. Ultimo degli esempi di questo tipo, Claudio Magris sulla prima pagina del Corriere della Sera di martedì 23 ottobre scorso, con una riflessione scoordinata, lunga, confusa, ma molto significativa.Il pur intelligente studioso triestino racconta di essere a Madrid in una delle tante giornate di protesta contro le manovre di austerità del governo Rajoy e di provare tristezza per questo. Il fondo si intitola infatti e si apre con una condivisibile (ma anche banale) riflessione sul futuro incerto che aspetta le nuove generazioni. Improvvisamente, in una stanza d’albergo, l’esperto di letteratura tedesca formatosi a Torino, accende la televisione e nota le manifestazioni di Barcellona per l’autodeterminazione della Catalogna. Apriti cielo. Abbandonato il tono pacato e meditativo da vecchio saggio, Magris indossa l’elmetto e impugna armi dialettiche feroci. I fermenti del separatismo catalano non solo sono negativi, ma sono causa alla Spagna e all’intera Europa (?!). Neanche loro, i Catalani, arriverebbero a tanto, cioè a individuare la ripresa dell’indipendentismo catalano come così centrale e dannosa per la questione europea. Detto tra noi, a loro piacerebbe, ma sanno bene che non è così.
Ma per il centralista italico Magris è fumo negli occhi. Come si permettono questi di mettere in dubbio l’unità dello Stato-Nazione? Ma la domanda sottostante non esplicitata è: e se succedesse anche in Italia a Bolzano, in Sardegna o in Friuli? Orrore, perché secondo Magris queste manifestazioni rappresentano l’ammainabandiera dell’Europa, una ritirata strategica, una mancanza di progetti per il futuro. La crisi economica alimenterebbe questi nell’assurda pretesa, secondo Magris, che ogni etnia o specificità linguistica debba assurgere alla pretesa di realizzarsi in uno Stato. E da lì dà il via ad una serie di esempi presi a pisello, un po’ sul modello di Abravanel di qualche settimana prima. E allora? La Svizzera, ad esempio, si dovrebbe separare in quattro quante sono le sue lingue? No, certo, sarebbe una follia, come separare la Spagna o l’Italia. Certo, si potrebbe obiettare, a suo tempo l’Italia è nata proprio in quel modo, con le stesse rivendicazioni, ma lasciamo perdere, è un inutile esercizio di obiettività storico-politica che per un italianista che si rispetti è come esercitarsi con l’alfabeto marziano.
Ma ecco che l’italianissimo Magris lancia la sua originale proposta, (mai sentita prima?): l’Europa deve finalmente diventare un vero Stato per combattere la crisi economica e i separatisti. Gli attuali Stati-Nazione che la compongono si devono trasformare in “Regioni” e fare, dice Magris, come gli Stati Uniti d’America.
Sembrerebbe una proposta anche sensata se non celasse la solita approssimazione, incompetenza e, quello che è peggio, la incredibile e ridicola voglia di esportare un modello malato, fallimentare e tutto italiano in Europa. Già l’uso del termine “Regioni” (invece che Stati Federali) dovrebbe mettere sull’avviso, ma poi mentre da un lato si menzionano i modelli federali di USA e Svizzera, dall’altro si afferma bellamente e molto “italianamente” che queste cosiddette “Regioni” che si dovessero costituire <…nessuna delle quali abbia ad esempio diritto di veto in merito alle decisioni politiche di un governo che realmente governi né diritto di darsi leggi e tantomeno costituzioni>. E inoltre che <… è ridicolo ad esempio avere leggi diverse, nei diversi Paesi, riguardo all’immigrazione, come sarebbe ridicolo avere a questo proposito leggi diverse a Bologna o a Genova>.
Insomma, si menzionano gli Stati Uniti o la Svizzera (dove negli stati o cantoni è normale avere leggi e ordinamenti diversi pur nel rispetto del patto federale), ma il pensiero sottostante è quello di estendere il modello italiano in Europa. Uno Stato sclerotico e centralizzato, di una democrazia autoritaria, che non riconosce al suo interno individualità nazionali o linguistiche se non straniere o di altri Stati-Nazione di pari grado nazionalista. Uno stato che si vorrebbe basato ancora sui prefetti, non sulle comunità locali che decidono. Un’Europa del futuro, insomma, che assomiglierebbe molto all’Italia post-berlusconiana di oggi e che nega, pur richiamandola formalmente, la visione federale dei veri padri dell’Europa.
Essi avevano bene in mente l’unità europea con la tutela dei popoli senza stato, le minoranze linguistiche e le regioni europee. Federazione dei popoli, delle comunità, delle minoranze e dei diritti civili estesi a tutti i cittadini. Non federazione sic et simpliciter dei soli Stati-Nazione fondatori.
Quindi anche il raffinatissimo e complesso Magris, da buon triestino, aderisce a questa opinio comunis che si va diffondendo nell’intellettualità italiana, che vede il neonazionalismo italiano (che nega a Sardegna, Friuli, Valle d’Aosta e altri uno status minimo almeno come quello presente dei catalani) come un modello in fondo positivo. A nulla servono i documenti europei: la Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie, la Convenzione quadro di protezione delle minoranze nazionali. Ma che sono? A che cosa servono? Noi siamo tutti italiani, anzi italici, direbbero i contendenti alla Magris, e dobbiamo diventare europei seguendo i buoni insegnamenti della patria che inventò il fascismo e si lasciò guidare (con patti più o meno velati con poteri criminali e Vaticano) da Giolitti, Mussolini, Andreotti, Craxi e Berlusconi. Tutta gente notoriamente stimata in Europa.
Inutile dire a Magris e al Corriere della Sera che i commentatori realmente “europei” vanno in altre direzioni. Ciò che succede in Belgio e in Euskadi non desta particolare preoccupazione. E, di recente, il Financial Times versione Deutschland, in un corsivo della direzione ha ribadito, pur criticandole ragioni degli indipendentisti Scozzesi e Catalani, che queste ragioni non sono del tutto insensate. E che l’Europa, per superare la crisi, deve restare unita nella salvaguardia delle diversità. Del resto, se Catalogna e Scozia diventano ancora più autonome restano sempre dentro la UE. Proprio il contrario di ciò che afferma confusamente Magris in nome e per conto di una vasta schiera di intellettuali e opinionisti “italianissimi” innamorati di un modello autocratico e neonazionalista che però, è bene ricordarlo, ci ha rovinato.
E allora che si discuta seriamente di questi temi, senza il solito sanfedismo da cortile italiano. E che, quando si parla di “miasmi del nazionalismo”, forse si dovrebbe guardare a Roma, non a Barcellona o a Edimburgo. E un poco anche a Trieste.
Giuseppe Corongiu
di Giuseppe Corongiu
(IlMinuto) - Cagliari, 29 ottobre - Gli intellettuali italiani quando si occupano di identità e autonomie (per non parlare di nazionalità interne) danno il peggio di loro stessi. Il milieu intellettuale della Repubblica Italiana, negli ultimi decenni, è diventato talmente neonazionalista e centralista da assimilare il suo modello antidemocratico e autoritario fino a ricomprendere grottescamente, in questo modello interpretativo, l’Europa e il mondo intero. Ci sono cantori di questa way of life italiana che hanno sempre a disposizione le prime pagine dei giornali più importanti. L’incompetenza e il fanatismo statalista la fanno da padroni. In fondo anche il leghismo è stato, nei fatti, una declinazione strabica di questo pensiero. Gli occhiali monoculari con i quali si analizza la realtà provinciale vengono impiegati anche per interpretare dimensioni etnolinguistiche e nazionalitarie polimorfiche, rifiutate in Italia, che sfuggono quindi al loro visus. Spesso questi corifei dell’Italia non capiscono il mondo che descrivono, non riescono proprio a “comprenderlo” in senso figurato, a circoscriverlo dentro uno schema conoscitivo. E dunque le loro proposte politiche, per quanto confezionate con mestiere, sono al limite del delirio. Il recinto ideologico che hanno costruito per reggere la baracca neoitalica li limita. Per molti maître à penser è infatti impossibile commentare ciò che capita in Europa e nel Mondo senza proiettare ubbie, limiti e fantasmi di un’Italia chiusa alle specialità etnolinguistiche e asfittica per la mancata tutela dei diritti civili. Il virus sembra contagiare anche intellettuali di rango, non del tutto estranei alla conoscenza della cultura europea. Ultimo degli esempi di questo tipo, Claudio Magris sulla prima pagina del Corriere della Sera di martedì 23 ottobre scorso, con una riflessione scoordinata, lunga, confusa, ma molto significativa.Il pur intelligente studioso triestino racconta di essere a Madrid in una delle tante giornate di protesta contro le manovre di austerità del governo Rajoy e di provare tristezza per questo. Il fondo si intitola infatti e si apre con una condivisibile (ma anche banale) riflessione sul futuro incerto che aspetta le nuove generazioni. Improvvisamente, in una stanza d’albergo, l’esperto di letteratura tedesca formatosi a Torino, accende la televisione e nota le manifestazioni di Barcellona per l’autodeterminazione della Catalogna. Apriti cielo. Abbandonato il tono pacato e meditativo da vecchio saggio, Magris indossa l’elmetto e impugna armi dialettiche feroci. I fermenti del separatismo catalano non solo sono negativi, ma sono causa alla Spagna e all’intera Europa (?!). Neanche loro, i Catalani, arriverebbero a tanto, cioè a individuare la ripresa dell’indipendentismo catalano come così centrale e dannosa per la questione europea. Detto tra noi, a loro piacerebbe, ma sanno bene che non è così.
Ma per il centralista italico Magris è fumo negli occhi. Come si permettono questi di mettere in dubbio l’unità dello Stato-Nazione? Ma la domanda sottostante non esplicitata è: e se succedesse anche in Italia a Bolzano, in Sardegna o in Friuli? Orrore, perché secondo Magris queste manifestazioni rappresentano l’ammainabandiera dell’Europa, una ritirata strategica, una mancanza di progetti per il futuro. La crisi economica alimenterebbe questi nell’assurda pretesa, secondo Magris, che ogni etnia o specificità linguistica debba assurgere alla pretesa di realizzarsi in uno Stato. E da lì dà il via ad una serie di esempi presi a pisello, un po’ sul modello di Abravanel di qualche settimana prima. E allora? La Svizzera, ad esempio, si dovrebbe separare in quattro quante sono le sue lingue? No, certo, sarebbe una follia, come separare la Spagna o l’Italia. Certo, si potrebbe obiettare, a suo tempo l’Italia è nata proprio in quel modo, con le stesse rivendicazioni, ma lasciamo perdere, è un inutile esercizio di obiettività storico-politica che per un italianista che si rispetti è come esercitarsi con l’alfabeto marziano.
Ma ecco che l’italianissimo Magris lancia la sua originale proposta, (mai sentita prima?): l’Europa deve finalmente diventare un vero Stato per combattere la crisi economica e i separatisti. Gli attuali Stati-Nazione che la compongono si devono trasformare in “Regioni” e fare, dice Magris, come gli Stati Uniti d’America.
Sembrerebbe una proposta anche sensata se non celasse la solita approssimazione, incompetenza e, quello che è peggio, la incredibile e ridicola voglia di esportare un modello malato, fallimentare e tutto italiano in Europa. Già l’uso del termine “Regioni” (invece che Stati Federali) dovrebbe mettere sull’avviso, ma poi mentre da un lato si menzionano i modelli federali di USA e Svizzera, dall’altro si afferma bellamente e molto “italianamente” che queste cosiddette “Regioni” che si dovessero costituire <…nessuna delle quali abbia ad esempio diritto di veto in merito alle decisioni politiche di un governo che realmente governi né diritto di darsi leggi e tantomeno costituzioni>. E inoltre che <… è ridicolo ad esempio avere leggi diverse, nei diversi Paesi, riguardo all’immigrazione, come sarebbe ridicolo avere a questo proposito leggi diverse a Bologna o a Genova>.
Insomma, si menzionano gli Stati Uniti o la Svizzera (dove negli stati o cantoni è normale avere leggi e ordinamenti diversi pur nel rispetto del patto federale), ma il pensiero sottostante è quello di estendere il modello italiano in Europa. Uno Stato sclerotico e centralizzato, di una democrazia autoritaria, che non riconosce al suo interno individualità nazionali o linguistiche se non straniere o di altri Stati-Nazione di pari grado nazionalista. Uno stato che si vorrebbe basato ancora sui prefetti, non sulle comunità locali che decidono. Un’Europa del futuro, insomma, che assomiglierebbe molto all’Italia post-berlusconiana di oggi e che nega, pur richiamandola formalmente, la visione federale dei veri padri dell’Europa.
Essi avevano bene in mente l’unità europea con la tutela dei popoli senza stato, le minoranze linguistiche e le regioni europee. Federazione dei popoli, delle comunità, delle minoranze e dei diritti civili estesi a tutti i cittadini. Non federazione sic et simpliciter dei soli Stati-Nazione fondatori.
Quindi anche il raffinatissimo e complesso Magris, da buon triestino, aderisce a questa opinio comunis che si va diffondendo nell’intellettualità italiana, che vede il neonazionalismo italiano (che nega a Sardegna, Friuli, Valle d’Aosta e altri uno status minimo almeno come quello presente dei catalani) come un modello in fondo positivo. A nulla servono i documenti europei: la Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie, la Convenzione quadro di protezione delle minoranze nazionali. Ma che sono? A che cosa servono? Noi siamo tutti italiani, anzi italici, direbbero i contendenti alla Magris, e dobbiamo diventare europei seguendo i buoni insegnamenti della patria che inventò il fascismo e si lasciò guidare (con patti più o meno velati con poteri criminali e Vaticano) da Giolitti, Mussolini, Andreotti, Craxi e Berlusconi. Tutta gente notoriamente stimata in Europa.
Inutile dire a Magris e al Corriere della Sera che i commentatori realmente “europei” vanno in altre direzioni. Ciò che succede in Belgio e in Euskadi non desta particolare preoccupazione. E, di recente, il Financial Times versione Deutschland, in un corsivo della direzione ha ribadito, pur criticandole ragioni degli indipendentisti Scozzesi e Catalani, che queste ragioni non sono del tutto insensate. E che l’Europa, per superare la crisi, deve restare unita nella salvaguardia delle diversità. Del resto, se Catalogna e Scozia diventano ancora più autonome restano sempre dentro la UE. Proprio il contrario di ciò che afferma confusamente Magris in nome e per conto di una vasta schiera di intellettuali e opinionisti “italianissimi” innamorati di un modello autocratico e neonazionalista che però, è bene ricordarlo, ci ha rovinato.
E allora che si discuta seriamente di questi temi, senza il solito sanfedismo da cortile italiano. E che, quando si parla di “miasmi del nazionalismo”, forse si dovrebbe guardare a Roma, non a Barcellona o a Edimburgo. E un poco anche a Trieste.
Giuseppe Corongiu
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