Documento: "Lettera aperta di A Manca pro s’Indipendentzia al popolo lavoratore sardo"
Lettera aperta di A Manca pro s’Indipendentzia al popolo lavoratore sardo
Con la manifestazione di piazza del 5 febbraio il popolo lavoratore sardo ha dato una grande dimostrazione di forza facendo convergere in un solo punto tutte le sue istanze e lotte.
Chi ha partecipato a quella manifestazione si è reso conto in maniera chiara e distinta che la Sardigna è sull’orlo della bancarotta. Dal cementificio di Muros all’Alcoa, dai precari della scuola alle vittime della nuova ondata migratoria, dagli artigiani sardi ai pastori e agli agricoltori, l’economia sarda è al collasso.
In piazza sono arrivate le ragioni e la rabbia dei 350.000 sardi costretti a vivere sotto la soglia di povertà, dei 150.000 disoccupati, delle migliaia di operai che stanno perdendo il lavoro a causa delle scelte aziendali delle multinazionali dell’industria pesante e dei 2.500 precari della scuola messi sul marciapiede solo nel 2009.
A Manca pro s’Indipendentzia ha scelto di essere presente in piazza sia per portare il proprio progetto politico ai lavoratori sardi, sia per esprimere piena solidarietà alle loro famiglie in questo grave momento in cui stanno venendo a galla tutte le contraddizioni irrisolte degli ultimi 60 anni di autonomismo italiano.
Anche noi pensiamo che sia «necessaria una forte iniziativa popolare per contrastare la crisi che in modo così drammatico colpisce soprattutto i lavoratori, i disoccupati, i precari e i pensionati» [Piattaforma confederale di convocazione dello sciopero]. Eppure crediamo che la piattaforma dei sindacati italiani sia basata su rivendicazioni generiche, di retroguardia e fuorvianti che mirano a confondere i lavoratori sulle cause reali di quella che loro chiamano «crisi globale». Per questo aMpI è scesa in piazza al fianco dei lavoratori ma non ha aderito alla piattaforma sindacale e ha lanciato l’iniziativa di uno spezzone autonomo anticolonialista ben distante dalle posizioni dei sindacati italiani.
Otto anni fa, all’epoca dell’ultimo sciopero generale, non si parlava ancora della crisi finanziaria globale, dei fallimenti delle banche americane e della caduta simultanea delle borse. Eppure la crisi in Sardigna c’era già dal momento che chiudevano,o si avviavano alla chiusura, centri produttivi importanti come la Legler, la Cartiera di Arbatax, la Queen, continuava la lunga emorragia dei grandi poli chimici e il comparto agro-pastorale seguiva il suo secolare e indotto declino.
Dobbiamo renderci conto che la crisi in Sardegna non è globale o contingente, ma strutturale e causata dal regime colonialistico che ci è imposto ormai da un secolo e mezzo con la totale complicità della classe dirigente politica e sindacale sarda. La crisi in Sardigna si chiama Italia, è lo stato Italiano che ha scelto deliberatamente di affossare la nostra economia, di imporci un modello economico totalmente estraneo alla nostra cultura, al territorio e alle nostre risorse nazionali. Questo è stato fatto con la complicità della classe politica e sindacale sardo-unionista nel suo complesso che non ha mai osato mettere in discussione le scelte di politica economica volute dall’alto e ha anzi messo alla berlina o isolato le voci critiche che da sempre hanno denunciato la costruzione di cattedrali nel deserto e sostenuto la necessità di fare economia sulla base delle nostre reali esigenze.
Dobbiamo dire con chiarezza che non è vero che ci serve un «nuovo piano di Rinascita» per rinegoziare il rapporto fra «Stato e Regione» [piattaforma dei sindacati unionisti]. I piani di Rinascita hanno desertificato la nostra terra creando inquinamento, emigrazione e povertà e mai un soldo dei miliardi previsti è stato utilizzato per modernizzare l’economia endogena e sostenere una crescita finalizzata agli interessi dei nostri lavoratori e delle nostre comunità.
Ci serve invece una nuova classe politica non stipendiata e dipendente dagli interessi del capitalismo italiano e dei suoi alleati che sappia consumare una rottura economica, culturale e politica con lo Stato italiano, e che sia capace di formulare un piano produttivo nazionale sui settori strategici dell’energia, delle infrastrutture, della fiscalità, del credito, dell’industria leggera, dell’artigianato, della scuola, dell’ambiente e dell’agro-pastorale basato sulla valorizzazione e sul sostegno di tutti quei settori da sempre umiliati e resi marginali da parte dello Stato centrale e dei suoi ascari politici e sindacali locali.
A Manca pro s’Indipendentzia è convinta che l’indipendentismo non possa assumere una posizione snob e settaria di fronte alla mobilitazione generale del popolo lavoratore sardo chiamandosene fuori come se la cosa non lo riguardasse, anche se oggi i lavoratori sono purtroppo egemonizzati da quegli stessi sindacati italiani che non hanno mai osato ribellarsi al colonialismo e hanno sempre svenduto e calmierato le istanze e le lotte dei proletari sardi. Ma dobbiamo essere onesti e farci alcune domande: con chi vogliamo costruire l’indipendenza? Cosa significa costruire l’indipendenza?
Noi siamo convinti che essere indipendentisti oggi non possa che significare costruire il Partito dei lavoratori sardi, un partito che abbia la capacità di raccogliere le esigenze di cambiamento del mondo del lavoro nella nostra terra e rovesciarle contro i reali responsabili del malessere generalizzato tra i nostri lavoratori. Se non abbracciamo una prospettiva di cambiamento radicale e di rottura con il colonialismo, cioè se non mettiamo in piedi una classe politica sarda capace di opporsi all’uso spregiudicato e rapinatore delle cordate multinazionali che si gettano sulla nostra isola quando c’è da arricchirsi e se ne vanno senza farsi troppi problemi quando l’osso è ben spolpato, è inutile fare tanti discorsi alla caccia di soluzioni tampone o anche convocare scioperi generali e sfilate di piazza. Ci serve un partito della sinistra indipendentista basato sugli interessi e sui bisogni dei lavoratori, ci serve per progettare uno Stato nuovo e in rottura con il vecchio modello ottocentesco che impedisca il ladrocinio sistematico delle nostre risorse e l’inganno eretto a sistema. Questo e non altro è il nostro indipendentismo!
A Manca pro s’indipendentzia parte dalla difesa e dalla salvaguardia dei posti di lavoro proponendo il blocco immediato dei licenziamenti fino a che non sia chiarita un’alternativa organica alla crisi colonialista. Denunciamo non solo il «disimpegno dei grandi gruppi nazionali multinazionali» ma anche chi non ha impedito tutto questo, a partire dai sindacati italiani, e continua ad avere una mentalità accattona da figlio illegittimo che risulta ormai in tutta la sua evidenza inutile e controproducente. Serve cambiare strada, serve costruire lo Stato dei lavoratori sardi, serve prendere il potere con e in nome dei lavoratori sardi, nazionalizzare le industrie e l’energia e ridisegnare comunitariamente la nostra economia sulla base delle nostre esigenze di nazione e di popolo lavoratore.
Cristiano Sabino – portavoce nazionale di a Manca pro s’Indipendentzia
www.manca-indipendentzia.org